Le nuove regole per i cannabis-shop

Il 9 maggio 2019, il Ministero dell’Interno ha adottato una nuova direttiva avente ad oggetto la commercializzazione della canapa e gli indirizzi operativi, rivolta a tutte le Prefetture, con l’obbiettivo di contrastare la vendita in negozi autorizzati della cannabis-light, cioè delle infiorescenze, olio, resine estratte dalla Canapa Sativa: sono, molti, infatti, i prodotti che vengono venduti legalmente, con basso contenuto di principio attivo, il tetraidrocannabinolo (Thc), con una concentrazione che va dallo 0,2 % allo 0,6 %.

La direttiva dispone che il tema venga sottoposto al Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica alla presenza di rappresentanti di Regione, Sindaci e membri della Magistratura per effettuare una “approfondita analisi del fenomeno”

Come è noto, in Italia è, al momento, ammessa la coltivazione della canapa nel rispetto di quanto previsto dalla legge 2 dicembre 2016, n. 2421 che ne premia il valore “quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione”.

In particolare, le suddette disposizioni prescrivono che la coltivazione può riguardare solo le varietà ammesse, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e che dalla canapa coltivata è possibile ottenere esclusivamente i prodotti puntualmente indicati all’articolo 2, comma 2, della medesima legge n. 242/2016.

Si tratta, in particolare, di:

a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
g) coltivazioni destinate al florovivaismo.

Sulla base di tale disposizione, il Ministero precisa che viene impropriamente pubblicizzata come consentita dalla legge n. 242/2016 la vendita di derivati e infiorescenze di cannabis e si sta assistendo a una crescita esponenziale del relativo mercato, in esercizi commerciali dedicati o misti nonché online.
In realtà, tra le finalità della coltivazione della canapa industriale non è compresa la produzione e la vendita al pubblico delle infiorescenze, in quanto potenzialmente destinate al consumo personale, in quantità significative da un punto di vista psicotropo e stupefacente, attraverso il fumo o analoga modalità di assunzione.

Al riguardo, lo stesso Consiglio Superiore di Sanità ha sottolineato che l’impiego di simili preparati, erroneamente percepito come “legale” e quindi sicuro dal punto di vista della salute, rischia di tradursi in un danno anche grave per se stessi e per gli altri (basti pensare agli effetti per chi guida in stato di alterazione o alle donne in gravidanza o allattamento), raccomandando l’adozione di misure per vietare la libera vendita di tali prodotti.
In questa direzione si è conseguentemente orientata l’attività operativa delle Forze dell’ordine che negli ultimi mesi hanno avviato significative iniziative di prevenzione.

I relativi provvedimenti hanno superato il vaglio dell’Autorità giudiziaria che, in più occasioni, ha ribadito quanto sopra osservato, ovvero che l’area di applicazione della legge n. 242/2016 è estranea alla cessione pura e semplice dei derivati della canapa per fini voluttuari che a nulla rilevano, in punto di fatto, le iscrizioni sulle confezioni, poiché “si tratta di sostanze stupefacenti poste in vendita liberamente, senza vincolo alcuno, concretamente destinate quindi ad un uso altrettanto libero o ricreativo che dir si voglia”.

Ciò posto, secondo le indicazioni ministeriali, l’azione finora condotta deve essere messa a sistema e ulteriormente implementata, alla luce delle risultanze investigative e dei recenti sviluppi che hanno interessato il settore.
Nel dettaglio, quindi, il Ministero invita le Prefetture a sottoporre all’attenzione dei Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, allargati alla partecipazione dei rappresentanti della Regione, dei Sindaci dei Comuni di maggiore dimensione e di quelli interessati dalla presenza degli esercizi commerciali in argomento, nonché dei rappresentanti della magistratura, l’esigenza di un’approfondita analisi del fenomeno, che tenga conto di tutti i fattori di rischio.

In particolare, in quella sede, dovrà essere innanzitutto disposta una puntuale ricognizione di tutti gli esercizi e le rivendite presenti sul territorio, in condivisione con le Amministrazioni comunali ed attraverso il concorso dei rispettivi Comandi di Polizia locale e degli Sportelli deputati al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative (SUAP, uffici commercio, uffici igiene e sanità, uffici tecnici comunali).
Nell’esecuzione del monitoraggio, una cura particolare dovrà riguardare la verifica del possesso delle certificazioni su igiene, agibilità, impiantistica, urbanistica e sicurezza, richieste dalla legge per poter operare.

Un altro aspetto da prendere in esame deve essere la localizzazione degli esercizi, con riferimento alla presenza nelle vicinanze di luoghi sensibili quanto al rischio di consumo delle sostanze, come le scuole, gli ospedali, i centri sportivi, i parchi giochi, e, più in generale, i luoghi affollati e di maggiore aggregazione, soprattutto giovanile.

Gli esiti dell’attività di ricognizione condotta saranno quindi sottoposti alle valutazioni del medesimo Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, nella stessa composizione suindicata, al fine di declinare un programma straordinario di prevenzione di eventuali comportamenti vietati da parte degli operatori commerciali, specialmente se diretti verso la categoria più vulnerabile degli adolescenti.
Operativamente, il Ministero stabilisce che le Prefetture dovranno in primis ricomprendere le aree interessate tra quelle da sottoporre ad attenzione all’interno dei Piani di controllo coordinato del territorio, definendo con gli enti locali intese collaborative ad hoc per un organico coinvolgimento delle polizie locali nelle relative attività.

I servizi di “osservazione” così realizzati potranno consentire lo svolgimento di apposite analisi sui prodotti acquistati negli esercizi in esame, finalizzate a scongiurare situazioni di detenzione e vendita che rientrano nel perimetro sanzionatorio della normativa antidroga.
Le preminenti ragioni della tutela della salute e dell’ordine pubblico messe in pericolo dalla circolazione di siffatte sostanze dovranno, altresì, essere segnalate agli enti locali affinché le tengano in debita considerazione in relazione alle possibili nuove aperture di simili esercizi commerciali, prevedendo una distanza minima di almeno cinquecento metri dai luoghi considerati a maggior rischio.
Un provvedimento comunale sul modello di quello che ha già interessato le sale da gioco, assunto nella consapevolezza che il consumo delle cosiddette “droghe leggere” rappresenta spesso un viatico per l’assunzione di quelle pesanti.

La circolare ministeriale si è inserita nell’attesa, per gli addetti del settore della cannabis-light, della data del 31 maggio 2019, quando le Sezioni Unite della Cassazione avrebbero fornito risposte definitive a seguito di divergenze di due Sezioni Penali della Suprema Corte, legate a sequestri di prodotti e negozi che vendevano la cannabis-light.

A differenza di altri pronunciamenti, con la sentenza della Cassazione, Sez. VI, 29 novembre 2018 (dep. 31 gennaio 2019), n. 4920, i giudici hanno considerato legittima la commercializzazione al dettaglio della c.d. cannabis light, proveniente dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242/2016 e recante un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) inferiore alla soglia dello 0,6%.
La legge n. 242/2016 ha stabilito che particolari varietà di tale pianta – quelle iscritte nel Catalogo di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 – non rientrano nell’ambito di applicazione del T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti o sostanze psicotrope e possono essere coltivate liberamente, senza necessità di autorizzazione, a condizione che le varietà coltivate non superino lo 0,6% di THC. Ma la stessa legge non tratta esplicitamente della commercializzazione di tale prodotto, che secondo la Cassazione non integra gli estremi di una condotta penalmente rilevante; e i giudici di legittimità, concludendo per l’insussistenza del fumus delicti, hanno annullato l’ordinanza che aveva in precedenza disposto il sequestro preventivo.

Il 31 maggio 2019 è arrivato, e così è arrivata la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
La Suprema Corte è stata chiamata in causa per decidere se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell’articolo 1, comma 2, legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito il seguente principio di diritto:

“La commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”.

Operativamente, la Corte di Cassazione conclude stabilendo che:

“…pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309 / 1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.

La decisione delle Sezioni Unite risolve ora definitivamente il problema, chiarendo che non è lecito vendere, a qualsiasi titolo, i prodotti derivati dalla cannabis contenenti una qualunque percentuale di THC.
Ne conviene che diventano illecite e pertanto sottoponibili a sequestro penale tutte le confezioni di infiorescenze, foglie, olio e resina in vendita nei vari cannabis shop e tabaccherie.

 

Articolo a cura di Marco Massavelli

Profilo Autore

Commissario Settore Operativo Polizia Locale Rivoli (TO) – Disaster Manager
Esperto di commercio, polizia amministrativa, circolazione stradale internazionale, protezione civile.

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