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Nuovi protocolli di First Response al fenomeno dell’Active Shooting Threat in ambito urbano

Negli ultimi 15 anni, in tutto il mondo, ci sono stati circa 511 incidenti gravi causati da una minaccia incontrollata che ha causato un alto numero di vittime tra la popolazione civile; la maggior parte di questi casi si è verificata in luoghi in cui la minaccia, molto determinata e senza ostacoli, è stata in grado di portare a termine il proprio attacco.

Gli obiettivi sono stati spesso definiti “soft” ovvero “facili e non resilienti”, con limitate misure di sicurezza attiva a tutela e protezione o con una limitata presenza di personale armato (forze di sicurezza private e/o forze di polizia) al contorno.

Nella maggior parte dei casi i cosiddetti Active shooters sono stati neutralizzati dalle forze di polizia, e più occasionalmente si sono arresi quando si sono trovati in uno scontro diretto con i relativi reparti intervenuti.

Secondo le ultime statistiche redatte dal dipartimento di polizia di New York

  • il 46% degli incidenti riconosciuti come Active shooter è terminato con l’applicazione di forza letale da parte delle forze di polizia o del personale di sicurezza privata presente in loco durante i primi momenti critici dell’evento;
  • il 40% delle aggressioni finisce con il suicidio del tiratore;
  • nel 13% dei casi il tiratore si arrende;
  • in meno dell’1% dei casi la violenza termina con la fuga volontaria dell’attaccante.

Il fenomeno dell’Active Shooting Threat ha forzatamente causato un cambiamento radicale nei protocolli operativi, nell’addestramento e nelle tattiche impiegate dai reparti di primo intervento e, allo stesso tempo, ha cambiato anche i protocolli di intervento sanitario per i soccorritori, ovvero i First responders, che vengono a trovarsi per primi sul luogo dell’infausto evento.

Coloro che vengono chiamati First responders svolgono un ruolo chiave nei momenti iniziali dell’attacco (ciò, ancor prima di un intervento di una forza di polizia territoriale e successivamente dei reparti speciali), ed è per questo motivo che imparare cosa preveda la prima fase di un protocollo come il TCCC – Tactical Combat Casualty Care (CUF – Care under fire, ovvero il trattamento di un ferito sotto la minaccia di fuoco nemico) rimane fondamentale per garantire l’efficacia del soccorso.

E’ proprio in virtù di questo che l’evoluzione in tal senso di quello che viene chiamato Tactical Combat Casualty Care, assume una connotazione (nel nome più che nei fatti) più civile, diventando TECC – Tactical Emergency Casualty Care; tale protocollo, proprio in analogia a quello di derivazione militare, prevede una prima fase che non si chiamerà più CUF – Care under fire ma DTC, ovvero Direct Threat Care, soccorso durante un pericolo diretto.

Si inizia così a delineare una nuova consapevolezza, la quale vede adattare gli insegnamenti appresi in ambito militare circa il trattamento dei feriti in combattimento al contesto civile della medicina tattica: ciò importa nel soccorso civile i concetti del TCCC al fine di migliorare le prestazioni e la sicurezza degli operatori coinvolti adattandoli al contesto.

E’ indubbio quanto le armi impiegate nonché le lesioni da trattare siano simili, e che quindi sia fondamentale mutuare concetti e strategie al fine di ottimizzare ed integrare quanto i differenti protocolli richiedano.

L’applicazione delle linee guida TECC – Tactical Emergency Casualty Care per i Soccorritori Sanitari, i Vigili del fuoco e le Forze di Polizia in Italia è attualmente ancora molto difficile e complessa: esistono limiti legislativi da superare ed aspetti squisitamente operativi, quali l’assenza di figure professionali qualificabili come EMT – Emergency medical technicians (fino ad arrivare all’ultimo step del Paramedico – Paramedic), che rappresentano veri e propri “buchi neri” nel nostro odierno apparato legislativo.

Inoltre il più delle volte questo genere di protocollo vede, tra le fila degli istruttori, appartenenti ai corpi militari dello Stato e più specificatamente, in Italia, appartenenti al bacino delle Forze Speciali o Forze per Operazioni Speciali, nonché formatori di Operatori FS o FOS, col risultato di renderli assai poco visibili al grande pubblico, nonché di difficile coinvolgimento in workshops, seminari e conferenze specialistiche di settore.

Imparare a “gestire” il protocollo non è una mera analisi ed applicazione di procedure sanitarie, bensì rappresenta un insieme di aspetti che spaziano dalla tattica, all’esperienza sul campo, fino ad arrivare alla medicina tradizionale.

Ora si confronti cosa prevede una prima fase di soccorso in caso di attacco a quanto sarebbe previsto dai protocolli di matrice civile: CUF – return fire and take cover!…su tal punto si ritiene non ci sia bisogno di alcuna delucidazione…

Ci sono infatti diversi casi confermati ove si nota il soccorritore che, per istinto, si lancia verso il commilitone colpito, consentendo in tal modo al cecchino appostato di tirare nuovamente e col risultato di ritrovarsi con un altro uomo a terra; l’attenzione deve infatti rimanere sempre su come attenuare la minaccia, spostando i feriti sotto copertura, se tatticamente fattibile, o indirizzandoli in una zona relativamente sicura.

L’unico trattamento salvavita permesso in questa fase è gestire un’emorragia massiva utilizzando uno strumento denominato tourniquet; per quanto riguarda le vie aeree, invece, generalmente il trattamento sulla gestione delle stesse è differibile, o comunque non viene fatto in questa fase (ovvero non sotto il possibile fuoco nemico), poiché un controllo accurato e una possibile gestione di una via aerea ostruita o parzialmente ostruita richiederebbe tempo, cosa che in questa fase non si ha assolutamente.

Certo è che, se vogliamo riflettere su quanto detto e sulla scorta dell’esperienza che abbiamo maturato, nel caso di un paziente incosciente e dopo aver eseguito un controllo speditivo del cavo orale, l’adozione di un dispositivo sovra-glottide come ad esempio una “cannula di Guedel” non farebbe di certo male, garantendoci la pervietà delle vie aeree durante il trasporto/trascinamento in zona più sicura (da non confondere con una fase di movimentazione attenta ed accurata).

Traducendo ciò in un contesto civile, in caso di attacco terroristico, il protocollo ci porterebbe a controllare la minaccia, se fattibile, indirizzando i feriti (che in quel momento potrebbero essere sotto shock e quindi incapaci di valutare situazioni anche ovvie) verso un luogo più sicuro se non raggiungibili, ad istruirli nel compiere autonomamente manovre salvavita come l’arresto di un’emorragia massiva e, appena possibile, a portarli in una zona di relativa sicurezza dove continuare la gestione del paziente con la seconda fase: Tactical Field Care o “civilmente tradotto” Indirect Threat Care.

Non è inoltre da sottovalutare il fatto che, in caso di un evento terroristico o ancor peggio di un attacco mediante l’impiego di ordigni esplosivi improvvisati, i feriti saranno sicuramente più d’uno; in tal caso il triage degli stessi non dovrà più avvenire col metodo tradizionale del “il più grave prima di tutti”, poiché nelle cosiddette mass casualties, anche in ambito civile, i protocolli mutano passando a triage dove non è più il maggiormente grave ad essere curato per primo ma colui che ha, al momento, le maggiori probabilità di sopravvivenza.

 

Articolo a cura di Marco Palmisano e Stefano Scaini

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Marco Palmisano e Stefano Scaini

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