Lo “spirito” del terrorismo e i limiti delle politiche securitarie nella pandemia

Il 16 ottobre scorso un diciottenne ceceno è stato ucciso dalla polizia nei pressi di Parigi dopo aver decapitato un insegnante di storia che aveva mostrato in aula le vignette satiriche su Maometto; 11 le persone fermate nell’ambito delle indagini.

Quasi un mese fa, il 25 settembre 2020, quattro persone vennero gravemente ferite con un’arma da taglio a Parigi, proprio nei pressi dell’ormai ex redazione di Charlie Hebdo; l’attacco è stato sferrato da un cittadino pakistano di 18 anni, già conosciuto dalla polizia per reati comuni. Un’azione violenta connessa, come confermato dal governo e dall’intelligence francese, alle persone di Saïd e Chérif Kouachi – autori degli attentati del 7 gennaio 2015 proprio nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, in risposta alle vignette raffiguranti il profeta Maometto – nonché all’attacco del 9 gennaio dello stesso anno in un ristorante kosher del per mano del jihadista Amédy Coulibaly, che lasciò un video pre-registrato di rivendicazione degli attacchi, ribadendo la logica belligerante di quelle uccisioni rispetto a quanto la Francia stava facendo contro lo Stato Islamico.

In quei casi si registrarono 17 morti tra membri della redazione del giornale, poliziotti e commessi del supermercato.

Nel ciclo di notizie ossessionato dal COVID-19 e nelle agende politiche di tutto il mondo, simili storie di attacchi terroristici sembravano in gran parte scomparse. Paradossalmente, molto prima dell’attuale pandemia, il linguaggio dell’epidemiologia si era rivelato utile per comprendere per analogia il modo in cui il terrorismo funziona, come fenomeno che dipende dal contatto e dallo scambio sociale e si espande rapidamente, in modo opportunistico, quando le difese vengono abbassate.

In questi mesi di emergenza globale c’è sicuramente una buona notizia (utile da sottolineare in questa sede): la curva degli attacchi terroristici internazionali è stata effettivamente appiattita, in quanto, avendo perso il suo “Califfato fisico”, lo Stato islamico sembra aver perso la sua capacità (e forse volontà) di lanciare attacchi in tutto il mondo spingendosi ben oltre le zone di conflitto.

Ma nonostante il momento di crisi sanitaria ed economica che ha colpito l’intera umanità, in cui gli attentati sembravano appunto essere stati culturalmente e cognitivamente “rimossi” per via del Covid-19, il fronte jihadista ha fatto comunque appello a colpire l’Occidente e ad approfittare proprio del periodo pandemico e del caos politico-economico presente nella maggior parte dei Paesi europei (UN, 2020). D’altronde il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi; e il coronavirus, causando migliaia di morti, il collasso dell’economia globale e uno sconvolgimento socio-politico, non si può negare abbia innescato una crisi internazionale.

Per comprendere i possibili segnali di ritorno dopo periodi di “pausa” medio-lunghi, nel mezzo di una pandemia in corso, è importante prima di tutto contestualizzare il fenomeno terroristico e capire lo “spirito” che lo anima.

Innanzitutto, la forma che la jihad islamista conferisce al terrorismo nel mondo contemporaneo unisce paradossalmente due ispirazioni distinte e contraddittorie: quella tradizionale e quella della modernità. L’atto violento a cui abbiamo assistito anche lo scorso venerdi non è una novità delle attuali società e non ha nulla di specificatamente islamico, orientale o arabo, ma possiede un tratto specifico e sempre presente, quello della violenza (che va oltre l’etichetta mediatica della “follia”), del dominio sull’altro e della volontà di alcuni uomini di uccidere i propri simili, accettando, se necessario, di dover morire loro stessi nell’atto.

È dunque inutile pretendere di trovare esclusivamente nel registro religioso uno scenario che ci consenta di uscire in modo rapido da questa crisi storico-culturale, ma allo stesso tempo sarebbe errato cadere negli errori di un certo pensiero in cui grandi intellettuali identificano la vera causa del terrorismo non nella religione, ma nella resistenza degli oppressi all’imperialismo occidentale. Risulta utile, infatti, cominciare a distinguere l’Islam dal fanatismo e creare reti istituzionali di collaborazione con i musulmani che combattono l’integralismo, definito da Abdelwahab Meddeb (2002), la “malattia dell’Islam”. Poiché la globalizzazione non è solamente economica e politica ma anche culturale, ciò implica che le stesse religioni, come appunto le culture, si “civilizzino” reciprocamente attraverso il dialogo tra loro e con il mondo “laicizzato” (Appadurai 2005; Bastenier 2015).

Solo operando questa distinzione e riconoscendo come “valide” entrambi le posizioni è possibile ostacolare il terrorismo individuando, allo stesso tempo, i limiti delle attuali politiche securitarie. Nel perseguire questi scopi, i responsabili politici si trovano a fronteggiare una duplice esigenza: distinguere i fatti realmente accaduti e la loro percezione nell’immaginario collettivo e affrontare, poi, l’opinione pubblica gestendo l’insicurezza e i timori di possibili risvolti antidemocratici nell’azione repressiva.

Partendo dal fatto che un’idea di politica antiterrorista efficace al cento per cento non esiste, le istituzioni dovrebbero riconoscere i limiti dell’imperativo hobbesiano, accettando e ammettendo (anche pubblicamente) che non bisogna cedere a derive autoritarie dannose per la democrazia, e ricordare che uno dei principali obiettivi del terrorismo è minare la fiducia che tutti i cittadini hanno nell’autorità garante della comunità politica, gettando a priori il sospetto su intere categorie di popolazione che affermiamo di voler integrare nelle nostre società.

A tal proposito non è da tralasciare il fatto che gli impatti sociali ed economici del COVID-19 abbiano avuto il giusto potenziale per minare proprio la coesione sociale e alimentare conflitti tra gruppi e forme di esclusione delle minoranze, creando cosi condizioni favorevoli alla diffusione del terrorismo e dell’estremismo violento (Barton, 2020).

I terroristi stanno sfruttando il disagio, l’incertezza e le difficoltà economiche causate da COVID-19 per diffondere paura, odio e divisione, per radicalizzare e reclutare nuovi seguaci. Mentre i governi di tutto il mondo sono concentrati sulla lotta al virus (e alcuni hanno addirittura annunciato una riassegnazione delle risorse, compreso il ritiro delle forze armate straniere coinvolte in operazioni contro l’ISIS e Al-Qaeda e il trasferimento delle forze armate a sostegno degli sforzi di soccorso in caso di pandemia interna), lo Stato Islamico e al-Qaeda si sono adattati al nuovo contesto di crisi e mirano a riaffermarsi online e offline, esortano seguaci e affiliati a intensificare gli attacchi (ICG, 2020).

La pandemia ha evidenziato infatti la vulnerabilità delle istituzioni e dei cittadini comuni di fronte alle nuove narrative estremiste che favoriscono il terrorismo e le sue forme emergenti, compresi gli attacchi informatici contro le istituzioni sanitarie; minacce (mortali) globali come il terrorismo e il COVID-19 impongono ora alle istituzioni europee di pianificare una strategia operativa comune, ma prima di tutto un rinnovato senso di unità e di solidarietà.

Le Nazioni Unite definiscono come “altamente probabile” il fatto che le minacce terroristiche continueranno a diversificarsi, sottolineando la possibilità di attacchi che comporteranno l’interruzione informatica di infrastrutture critiche, l’utilizzo di agenti biologici e l’incitamento all’odio, in particolar modo nello spazio pubblico digitale, ambiente ormai “familiare e professionale “per la maggior parte delle persone, connesse a livello globale e impegnate a consumare qualsiasi forma di prodotto multimediale.

Dunque, dallo scenario descritto emergono due aspetti: il primo riguarda la sicurezza nazionale e la salvaguardia della democrazia nella pandemia.
In questa fase storica è necessario investire sulla comunicazione pubblica, sulla salute e nella sicurezza: ciò significa ripensare i bilanci europei per dedicare risorse strategiche alla ricerca, alla formazione, allo sviluppo di contro-narrazioni per contrastare violenza e disinformazione, interventi questi cruciali per il futuro.

La vera strategia per resistere agli attacchi di pandemia sta nella logistica o, meglio, nell’avere e ottenere più ospedali, letti, specialisti, infermieri, macchinari e medicine; quella per prevenire (e ridurre) le possibilità di attacchi terroristici risiede nell’esistenza degli immaginari sociali non ostacolanti, delle opinioni libere e militanti, anche contraddittorie, senza autocensura e nel saper guidare (e giudicare) una democrazia, non in base ai suoi nemici, ma ai suoi risultati, senza cedere alla logica della repressione.

Il secondo aspetto riguarda il livello di collaborazione e fiducia tra media, cittadini (autoctoni e stranieri) e istituzioni locali, nazionali ed europee.

Comunicare in modo corretto e ordinato le crisi e le possibili azioni di contrasto, accettare le restrizioni e partecipare consapevolmente alla loro applicazione, incentivare forme di “ospitalità” e di apertura all’Altro, sviluppare relazioni nel contesto di prossimità evitando ogni forma di etichettamento e di esclusione, sono tutti elementi utili a raggiungere il risultato tanto desiderato: sconfiggere il virus e gestire le varie forme di minaccia e di conflitto sociale, per (ri)costruire il futuro insieme.

Inoltre, suggerisce Bastenier (2015), per ristabilire o rafforzare la fiducia nelle istituzioni e la collaborazione all’interno di ogni comunità e monitorare lo “spirito” del terrorismo – specialmente in un periodo storico come l’emergenza sanitaria in corso – è importante favorire l’emergere di nuove forme di “creatività politica” nelle democrazie, dove il bisogno di ridefinirsi è costante; l’alternativa sarebbe perdersi nelle logiche di polizia e nel caos generato dalle situazioni di forte crisi.

 

Articolo a cura di Giacomo Buoncompagni

Profilo Autore

Università di Firenze, membro dell’unità di ricerca del progetto europeo Hideandola - Hidden Anti-Semitism and the Communicative Skills of Criminal Lawyers and Journalists

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