Una delle vittime illustri del Covid-19 è la Supply Chain: un sistema complesso fatto di produzione, trasporto, distribuzione e commercio che si è rivelato in tutta la sua “fragilità”. Una Supply Chain Globale articolata, costituita da un network inter – e intra – nazionale di rotte aere e navali, hub di raccolta e di distribuzione, Zone Economiche Speciali (ZES), essenziale al funzionamento della nostra società sempre più basata su logiche del just in time & last mile. Logiche che hanno indotto molte aziende, per abbattere i costi operativi, a limitare al minimo le scorte di magazzino ed il numero di fornitori alternativi di un certo componente (i.e. approccio Toyota). La nostra è una società che, perseguendo i profitti, ha prodotto una modalità di produzione “smembrata” e localizzata, in più punti, i cui prodotti (i.e. componenti chiave) vengono spediti per essere assemblati all’ultimo miglio: un sistema fragile e interdipendente che può generare un effetto domino di disruption se uno dei componenti non arriva a destinazione per l’assemblaggio finale del manufatto da immettere sul mercato.
La pandemia ha dimostrato che principi di Risk Management & Business Continuity riferiti alla gestione della Supply Chain non sembrano essere stati assimilati con successo. La normale operatività di gran parte delle organizzazioni mondiali è stata impatta già a partire dalla prima settimana del proliferare del virus, dal momento che dipendeva, più o meno largamente, da aziende localizzate in zone di quarantena della Cina. Non si tratta solo di aziende automobilistiche, tecnologiche e meccaniche, ma anche di settori vitali come quello farmaceutico o alimentare.
Nel corso degli ultimi anni, i vari report pubblicati annualmente, quali il World Economic Forum (WEF) – Global Risk Report e il BCI Supply Resilience Report avevano avvisato che sia la Supply Chain Disruption sia la pandemia, rientravano tra i rischi da monitorare attentamente. Eppure, irrazionalmente, abbiamo messo la testa sotto la sabbia per non vedere, dietro i cespugli, il “rinoceronte grigio” che era destinato ad apparire, in tutta la sua potenza, dinanzi a noi, con conseguenze che potrebbero essere irreversibili. A differenza del “cigno nero”, che si manifesta inaspettatamente, il “rinoceronte grigio” è un evento estremamente probabile, con un effetto straordinario, il cui potenziale di rischio viene comunque sottovalutato: è con la sua pelle corazzata che il Covid-19 si è presentato in tutta la sua forza.
Il WEF Global Risk Report 2018 ci aveva messo in guardia sul fatto che, se da un lato avevamo acquisito maggiore dimestichezza nella gestione dei rischi convenzionali, facilmente arginabili e mitigabili, adottando i tradizionali approcci di Risk Management & Business Continuity, dall’altro risultavamo molto meno competenti ad affrontare rischi complessi all’interno di sistemi interconnessi che, quando si presentano, hanno un impatto “esponenziale” sui sistemi stessi, sino a provocarne un tracollo repentino o provocare uno nuovo status quo altamente negativo.
Inoltre, l’ultimo WEF Global Risk Report 2020 aveva enfatizzato – come una Cassandra alla quale nessuno ha dato ascolto – il fatto che i sistemi sanitari di tutto il mondo potessero risultare inadatti ad affrontare le vulnerabilità derivanti dal cambiamento dei modelli sociali, ambientali, demografici, tecnologici oltre e tanto meno strutturati per affrontare eventuali epidemie. Non è un mistero che, nonostante l’esperienza di infezioni da virus degli ultimi anni, i progressi contro le pandemie sono stati compromessi dall’esitazione ad investire in vaccini e in ricerca farmacologica.
Il Covid-19 sta costringendo aziende ed interi settori a rimodulare e trasformare il modello della Supply Chain Globale e a prendere coscienza delle vulnerabilità che ne hanno causato la disruption, prima fra tutte, la forte dipendenza dalla Cina in termini di approvvigionamento di materie prime o prodotti finiti. La zona di Whuan è sede di fornitori per le componenti del 90% delle aziende Fortune 1000 che utilizzano l’alta tecnologia (i.e. industria farmaceutica, biomedica, componenti elettronici) e manifattura (i.e. industria automobilistica e siderurgica).
Ricordiamoci che la Cina fa parte di molte filiere italiane. Inoltre, sono delocalizzate in Cina quasi duemila imprese del Bel Paese con 190mila addetti e un fatturato di 36 miliardi di Euro nei settori della meccanica, tessile, moda, agroalimentare, utility, infrastrutture, trasporti e tecnologie spaziali. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma non è solo un “pericolo giallo” (in Cina, tra l’altro, molte fabbriche hanno ripreso la produzione). La delocalizzazione si è – dove più, dove meno – estesa a tutto il mondo, rendendo il rischio di disruption nelle filiere globali ancora più tangibile.
Ad oggi non sappiamo come si evolverà la situazione della pandemia ancora in espansione e, di conseguenza, risulta difficile prevedere quando l’economia si riprenderà, considerando l’estendersi di politiche “lockdown”, adottate progressivamente dai vari Paesi colpiti, che impongono lo stop della maggior parte delle attività produttive.
Le implicazioni economiche e finanziarie sono molteplici e imprescindibili, quindi, è lecito chiedersi quali saranno gli effetti dell’emergenza sulle filiere. Si presume che la dinamica di domanda e offerta non saranno simultanee, bensì avverranno in modalità asincrona, i.e. in diversi tempi, in aree diverse, secondo l’evolversi della diffusione della pandemia ed in base alle decisioni dei diversi Paesi. Anche il settore dell’energia e quello del trasporto subiranno le turbolenze dell’evolversi della situazione pandemica e delle disomogenee misure di allocazione delle risorse da parte delle istituzioni governative e, pertanto, sia le Supply Chain Globali sia le Industrie energy-intensive, potrebbero ripartire con maggiore difficoltà.
Bisogna assolutamente garantire i processi operativi delle filiere indispensabili (alimentare, farmaceutica e medicale, in primis) senza dimenticare il ruolo strategico svolto dagli operatori logistici, per salvaguardare la continuità dei flussi dei beni indispensabili e tutelando, al contempo, la salute dei lavoratori.
Avere un Business Continuity Plan (BCP), completo e pronto per essere attivato, è fondamentale in uno scenario di questo tipo; un BCP in grado di identificare le potenziali minacce per un’organizzazione, dalla pandemia alla Supply Chain Disruption, oltre ad analizzare l’impatto che queste possono avere sull’attività operativa e sugli obiettivi aziendali. Il BCP non prescinde da Risk Management Plan, Crisis Management Plan, ecc.: in un perimetro olistico, tutti i piani concorrono a mitigare le crisi e le minacce che possono colpire l’organizzazione, in modo tale da definire un framework che consenta alle funzioni chiave dell’azienda di continuare anche in condizioni di worst case scenario.
Le aziende che hanno fornitori o siti produttivi in Cina dovrebbero iniziare a cercare soluzioni alternative. Mentre le aziende, i cui siti sono chiusi, potrebbero considerare la diversificazione, la conversione o replica degli impianti di produzione, come modo migliore per mitigare i tempi di inattività, rispetto all’esigenza di tempi di recupero stringenti.
Per gestire in urgenza la Supply Chain Disruption, si potrebbero adottare alcune misure strategiche, quali:
Si auspica che l’esperienza della pandemia generi una maggiore diffusione dei principi di Risk Management e Business Continuity nelle organizzazioni, considerando che la gestione dei rischi connessi alla Supply Chain e alla logistica si basa su un’articolata gestione della continuità operativa e del rischio.
Non c’è più tempo da perdere: la Supply Chain necessita un repentino sviluppo di strategie di mitigazione della disruption, fino a valutare di: riconsiderare la geografia delle catene del valore, soprattutto per quanto riguarda i beni essenziali e, se necessario, di “rimpatriarle”; ipotizzare di avere una catena di valore sufficientemente corta per garantire i prodotti/servizi essenziali.
La tempesta non è ancora passata: evitiamo di farci trovare, ancora una volta, impreparati ad affrontare il prossimo “rinoceronte grigio”.
Articolo a cura di Federica Maria Rita Livelli
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