Il fenomeno della radicalizzazione nelle sue fasi di sviluppo, consolidamento e dissoluzione

Nel corso del tempo, e in particolar modo negli ultimi anni, del termine radicalizzazione si è fatto un utilizzo smodato, associato ormai in modo permanente all’estremismo di natura religiosa; l’utilizzo del termine in modo esasperato, inappropriato e semplicistico – alla stregua del concetto di terrorismo – ha portato a confondere il lettore, associandovi erronee sfumature comportamentali e ideologiche.

Anche in ambito accademico sono state nel tempo elaborate delle definizioni in alcuni casi ampiamente concettualmente discostanti tra di loro; tra le tante definizioni fornite dagli studiosi del fenomeno, una molto interessante è quella della dottoressa olandese Lidewijde Ongering, coordinatrice nazionale per l’antiterrorismo e la sicurezza dal 2005 al 2008, la quale ha sintetizzato il concetto di radicalizzazione come quel processo di sviluppo personale in base al quale un individuo adotta idee e obiettivi politici o politico-religiosi sempre più estremi, convincendosi che il raggiungimento di questi obiettivi giustifichi metodi estremi.

La radicalizzazione, come il terrorismo, troppo spesso ha significato “cose diverse per persone diverse”, in alcuni casi purtroppo basate anche su interessi politici diversi; alcune Agenzie di sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America, le quali si sono occupate del fenomeno per caratterizzarne i tempi di sviluppo e le modalità con le quali si diffonde, hanno potuto notare che questo avviene prevalentemente in modo molto rapido anche se non sempre con le stesse modalità.

Paradossalmente questa apparente rapidità nel radicalizzarsi o, per meglio dire, l’esternazione concreta con un passaggio all’azione vera e propria (fuga o attentato), si ha nella fase finale, ossia quando il soggetto pericoloso viene a conoscenza del monitoraggio da parte di terzi quali, ad esempio, agenzie di intelligence e apparati di sicurezza in genere; il periodo di incubazione alla base della radicalizzazione non ha tempi prestabiliti, in quanto esso può durare mesi o addirittura anni, sebbene ci siano eccezioni a questa regola.

Sono stati sviluppati alcuni modelli che cercano di strutturare i parametri evolutivi nel processo di radicalizzazione e uno dei primi fu analizzato dal Prof. Randy Borum presso la University of South Florida; Borum, esperto di intelligence, nel 2003 teorizzò l’individuazione di quattro fasi attraverso le quali passa la radicalizzazione:

  1. riconoscimento da parte dell’individuo o gruppo pre-radicalizzato che un evento o una condizione è sbagliata (“non è giusto”);
  2. ciò, viene seguito con una definizione dell’evento o della condizione come selettivamente ingiusta (“non è giusto”);
  3. il terzo passo si verifica quando gli altri sono ritenuti responsabili per l’ingiustizia percepita (“è colpa tua”);
  4. il passo finale riguarda la demonizzazione “dell’altro” (“tu sei cattivo”).

Altro modello interessante è stato quello sviluppato nel 2005 da Quintan Wiktorowicz, il quale ha introdotto la nozione di “apertura cognitiva”, ossia il momento in cui un individuo che ha cercato di dare un senso alla propria esistenza, vede improvvisamente la luce scambiando la vecchia e distorta visione del mondo con una considerata più verosimile; studiando una vasta gamma di estremisti musulmani britannici, Wiktorowicz ha scoperto che non era il più esperto nella teologia islamica ad essere vulnerabile alla radicalizzazione ma coloro che avevano solo un superficiale background religioso.

Il modello sviluppato da Joshua Sinai nel 2012, divide invece il percorso verso la radicalizzazione in tre fasi distinte: (A) Radicalizzazione, (B) Mobilitazione ovvero una forma di impegno attivo e (C) Azione, ovvero il passare all’atto pratico dell’attività di terrorismo.

Per quanto riguarda la fase di radicalizzazione, lo studioso Sinai identifica sei gruppi di fattori:

– fattori personali, come un’apertura cognitiva che assume la forma di una ricerca di un’ideologia religiosa o politica la quale si rivolge alle preoccupazioni dell’individuo;

– fattori politici e socio-economici quali, ad esempio, la percezione di essere discriminati;
– fattori ideologici che sono cruciali ma insufficienti se presenti singolarmente;

– fattori comunitari come la presenza di sottoculture estremiste all’interno della propria comunità locale di riferimento;

– fattori di gruppo, quali la presenza di un’organizzazione gateway estremista nella propria comunità;

– fattori abilitanti che forniscono mezzi e opportunità per diventare estremisti.

La fase successiva del modello del Sinai, individuata come mobilitazione, viene raggiunta quando alcuni individui che fungono da catalizzatore spingono l’individuo vulnerabile lungo il percorso, senza che questo abbia attorno elementi che fungano da inibitori; Sinai descrive la fase attiva della mobilitazione composta da tre componenti principali: Opportunità (ad esempio contatti con un gruppo terroristico), Capacità (ad esempio, addestramento all’uso delle armi) e Prontezza ad agire per conto di un gruppo terroristico; si riscontra infine la fase di selezione degli obiettivi e l’effettivo attacco terroristico.

Un altro modello fondamentale è stato elaborato nel 2009 dall’esperto del fenomeno Fathali M. Assaf Moghaddam, il quale lo appellò con il nome di “la Scala”; per descrivere tale modello, maggiormente sofisticato, lo studioso era solito usare una metafora per comprendere meglio il processo di radicalizzazione, paragonandolo a una scala stretta che conduce passo dopo passo alla cima di un edificio, caratterizzato da un piano terra e cinque piani superiori, e individuando all’ultimo piano l’atto terroristico vero e proprio.

Il piano terra, abitato da oltre un miliardo di musulmani in tutto il mondo, rappresenta un’analisi cognitiva delle circostanze strutturali in cui il singolo musulmano trova se stesso; in questo spazio, l’individuo pone a se stesso domande sull’equità del trattamento da parte della società, iniziando ad interpretare una causalità ascritta a ciò che ritiene essere ingiusto.

Secondo Moghaddam la maggior parte delle persone si trova su questo livello di base e a volte, alcuni individui molto insoddisfatti, si spostano al primo piano in cerca di un cambiamento della loro situazione; al primo piano si trovano infatti individui che stanno cercando attivamente di porre rimedio a quelle circostanze che percepiscono essere ingiuste.

Alcuni di loro potrebbero scoprire che i percorsi verso la mobilità sociale ascendente, di tipo individuale, sono bloccati, che le loro voci di protesta sono ridotte al silenzio e che non vi è accesso alla partecipazione al processo decisionale; la tendenza sarà quindi quella di salire al secondo piano, dove questi individui sono diretti verso obiettivi esterni per lo spostamento di aggressione.

Alcuni sono radicalizzati nelle moschee e in altri luoghi di incontro dei musulmani e, spostandosi al terzo piano della scala, si avvicinano sempre più a vagliare positivamente la strategia terroristica; questa fase comporta un disimpegno morale dalla società e un impegno morale all’interno della nascente organizzazione terroristica ove, sempre in questa fase, vengono costruiti i valori che razionalizzano l’uso della violenza da parte dei terroristi denigrando contemporaneamente l’autorità morale del regime incombente.

Proseguendo nell’evoluzione, un gruppo più piccolo sale la scala che conduce al quarto piano, ove la legittimità delle organizzazioni terroristiche viene accettata con più forza; qui l’atteggiamento è “tu sei o con noi o contro di noi”, iniziando ad essere incorporati nelle strutture organizzative e di valore delle organizzazioni terroristiche attraverso le quali alcuni di essi vengono reclutati per compiere gli ultimi passi sulle scale e commettere atti di terrorismo al raggiungimento del quinto piano superiore.

La ricercatrice danese Anja Dalgaard-Nielsen elaborò un altro modello, individuando approcci di natura psicologica e sociale allo studio della radicalizzazione in Europa; osservando infatti il fenomeno da una prospettiva personale, identificò sei fasi distinte:

  1. identificare un problema non solo come una disgrazia, ma come un’ingiustizia;
  2. costruire una giustificazione morale per la violenza (religiosa, ideologica, politica);
  3. incolpare le vittime (“è colpa loro”);
  4. disumanizzare le vittime [mirate] attraverso un linguaggio suggestivo e simboli derogatori;
  5. scomporre la responsabilità (Dio o altre autorità hanno ordinato all’uomo di commettere l’atto di violenza) o diffondere la responsabilità (il gruppo, non l’individuo, è responsabile);
  6. mischiare o minimizzare gli effetti dannosi (usando eufemismi o contrastando altri atti ritenuti peggiori).

Tra i vari quesiti posti agli studiosi che si occupano dei percorsi radicalizzanti, vi è quello relativo alla comprensione della psicologia di quei soggetti maggiormente vulnerabili alle insidie del fenomeno; un ambiente particolarmente esposto e a rischio proliferazione dell’ideologia radicalizzante, proprio in virtù della sua particolare struttura e condizione, è l’istituto di pena.
Sappiamo che le persone in carcere sono molto vulnerabili perché molti di loro, tra le mura degli istituti penitenziari, si trovano ad attraversare crisi esistenziali dovute all’isolamento; tra le mura è solito svilupparsi cameratismo o un sistema di credenze religiose, oppure una combinazione di entrambi.

Al di là delle popolazioni carcerarie e, nel caso dell’Europa occidentale, al di là dei giovani migranti di prima o seconda generazione provenienti da diaspore e non ben integrati in un paese ospitante, è difficile identificare specifici individui e gruppi vulnerabili; gli studiosi del fenomeno Tinka Veldhuis e Jorgen Staun hanno esposto interessanti concetti sulla vulnerabilità, ossia sull’impossibilità o estrema difficoltà di indicare gruppi sociali con un più elevato rischio di radicalizzazione rispetto ad altri.

Innanzitutto, la proporzione di musulmani che si radicalizzano è troppo piccola per essere classificata in gruppi social-vulnerabili; le statistiche dimostrano infatti che in occidente gli estremisti di matrice islamica sono giovani, maschi e relativamente ben istruiti, ma ciò non significa che siano più vulnerabili di altri alla radicalizzazione.

È quindi essenziale discostarsi dall’idea di individuare quali gruppi possano radicalizzarsi, approfondendo e studiando invece le condizioni nelle quali gli individui diventano più propensi a radicalizzarsi; anche altri paesi hanno svolto degli studi sui contesti che sono a maggior rischio di sviluppo dell’ideologia radicale, convenendo come le strutture carcerarie siano gli ambienti maggiormente utilizzati per la proliferazione della radicalizzazione religiosa, ossia luoghi nei quali vengono esercitati proselitismi fuorvianti e lontani dalla reale fede di pace che è rappresentata dall’Islam.

Diversi Paesi nei quali il fenomeno del terrorismo di matrice religiosa ha avuto un impatto sociale molto forte a causa del numero di vittime e del senso di vulnerabilità collettiva, parallelamente alle tradizionali modalità di contrasto (investigazioni, prevenzione, monitoraggio negli istituti di pena, attività di intelligence, etc.) si sono mossi con programmi pionieristici sul fronte psicologico, sviluppando percorsi di de-radicalizzazione sia su soggetti già radicalizzati in modo strutturato che su soggetti identificati quali a rischio.

Quasi venticinque Stati hanno introdotto, sotto varie etichette, programmi di de-radicalizzazione adottando due tipologie di approccio: una de-radicalizzazione ideologica individuale, nella quale vengono utilizzate tecniche di counselling psicologico e religioso per produrre un cambiamento di mentalità, e una de-radicalizzazione collettiva, all’interno della quale vengono sfruttate strategie come, ad esempio, i negoziati politici per ottenere un tipo di cambiamento comportamentale (ad esempio casi di “cessate il fuoco” o smantellamento delle armi).

Si è potuto notare che esistono studi sui programmi di de-radicalizzazione sia per il mondo occidentale che per i Paesi a maggioranza musulmana; dando infatti uno sguardo ad alcuni dei programmi esistenti, una relazione delle Nazioni Unite/CTITF – Counter Terrorism Implementation Task Force ha identificato la presenza di ben otto tipi di programmi nazionali differenti:

  • formazione scolastica;
  • promozione dell’alleanza tra civiltà e dialogo interculturale;
  • programmi carcerari;
  • analisi e discussione delle disuguaglianze economiche e sociali;
  • programmi globali per contrastare la radicalizzazione;
  • “la rete”;
  • riforme legislative;
  • sviluppo e diffusione delle informazioni.

I programmi nazionali di de-radicalizzazione hanno spesso scopi multipli e i loro obiettivi sono stati efficacemente riassunti dagli studiosi Bjørgo e Horgan:

  • ridurre il numero di terroristi attivi;
  • ridurre la violenza e la vittimizzazione;
  • riorientare le opinioni e gli atteggiamenti ideologici dei partecipanti;
  • ri-socializzare gli ex membri tornando alla vita normale;
  • consentire acquisizioni di intelligence, prove e testimoni in casi giudiziari;
  • seminare il dissenso all’interno dell’ambiente terroristico;
  • fornire un’uscita dal terrorismo e da una condizione di vita sommersa;
  • ridurre la dipendenza dai mezzi repressivi facendo più uso dell’aspetto umanitario nelle strategie antiterrorismo sia a livello nazionale che internazionale;
  • utilizzare ex terroristi pentiti quali opinion builders;
  • ridurre i costi economici e sociali di mantenere a lungo un gran numero di terroristi in carcere;
  • aumentare la legittimità del Governo o dell’Agenzia di Stato.

Alla luce dei vari percorsi di studio intrapresi e dei programmi di de-radicalizzazione sviluppati, il quesito che molti studiosi del fenomeno e Agenzie governative si sono posti è stato quello di capire quanto questi siano stati realmente efficaci; l’ I.P.I. – International Peace Institute (NY, U.S.A.) ha pubblicato un rapporto basato sulle iniziative di de-radicalizzazione condotte da otto Paesi a maggioranza musulmana, cercando di evidenziare le best practices che confermano le esperienze dei paesi che si sono scontrati con gruppi estremisti violenti.

Purtroppo, un esame attento della loro relazione ha offerto solo pochi dettagli oltre a osservazioni di natura troppo generale quali, ad esempio: affrontare i social networks è la chiave, i programmi dovrebbero affrontare le singole motivazioni, la credibilità degli interlocutori è vitale, il trattamento del prigioniero gioca un ruolo cruciale, il valore dell’istruzione è altissimo e altro ancora.

Alla fine, il rapporto I.P.I. ha dovuto ammettere che la ricerca sui programmi di de-radicalizzazione e riabilitazione è ancora agli inizi; osservando più da vicino uno dei programmi messi in atto dai Paesi che si sono prodigati nello sviluppo di strategie per la de-radicalizzazione appaiono emblematici i dati forniti ad esempio dall’Arabia Saudita, la quale ha sostenuto di aver raggiunto traguardi di grande livello.

Il programma, della durata da 8 a 12 settimane, risulta costoso in quanto vengono erogate materie articolate tra le quali, ad esempio, consulenze psicologiche, rieducazione religiosa, formazione professionale, sport e terapia artistica,  e si può stimare che dal 2003 i sauditi abbiano trattato oltre 4.000 detenuti radicali, riconsegnandone alla società circa la metà di loro.

Tra coloro che hanno partecipato a questo programma, solo il 10-20%, secondo le iniziali affermazioni saudite, è stato arrestato di nuovo per recidività: un tasso di successo ottimo rispetto alla recidiva del crimine ordinario, la quale è pari circa al 40% nel migliore dei paesi e vicino al 70% in molti altri; le affermazioni non verificabili sull’effetto dei programmi di de-radicalizzazione non sono limitate all’Arabia Saudita, ma provengono anche da Singapore e dall’Indonesia, suscitando dubbi quanto alcuni programmi esistenti anche in Europa.

Nel Regno Unito, a seguito di una revisione, molti degli sforzi cosiddetti Prevent (programmi di prevenzione) sono stati abbandonati per mancanza di controllo di qualità, mancanza di direzione o mancanza di risultati, innescando polemiche tra le diverse linee di pensiero, ovvero tra coloro che vedono nel supporto da parte di ex estremisti (i quali presumibilmente potrebbero godere di credibilità tra i giovani vulnerabili) un congruo aiuto nel contrastare i terroristi, e quelli che preferirebbero intraprendere un percorso più sicuro, didatticamente più strutturato e moderato.

Tra i nemici che rendono vani o insufficienti le strategie portate avanti da tali programmi di de-radicalizzazione si trova, uno su tutti, il tanto venerato web, che nel suo utilizzo dual use si presenta come strumento di fondamentale importanza nel mondo del lavoro ma anche quale veicolo per ripristinare ideologie faticosamente debellate; è sufficiente un telefono cellulare per mettersi in contatto con il mondo e rimanerne sommersi dalla mole d’informazioni, suggestioni, persuasioni ed esortazioni, il tutto con una facilità estrema e senza necessità di particolari competenze.

I canali comunicativi sono molteplici e strutturati in modo accattivante ed esteticamente piacevole con la finalità di colpire l’attenzione delle persone, bypassando spesso le loro capacità di analisi, comprensione oggettiva e razionale, per cui diventa inevitabile per la mente subirne passivamente il condizionamento emotivo assimilando suggestioni e manipolazioni.

Gli studiosi hanno inoltre sottolineato come, a differenza dell’immaginario collettivo di talent-scouts provenienti da gruppi organizzati come al-Qaeda e Stato Islamico in perenne viaggio per l’Europa alla ricerca di reclute promettenti, non vi siano in realtà riscontri che avvalorino tale tipologia di recruiment.

Una dinamica che viene invece ampiamente avvalorata è quella che vede la presenza di un contatto tra il singolo (o gruppo) che ha svolto la propria radicalizzazione in autonomia in Europa, e il gruppo jihadista operante al di fuori del vecchio continente; il contatto avviene, nella maggioranza dei casi, per iniziativa dell’individuo (o gruppo) con base in Europa e non viceversa.

 

Articolo a cura di Davide Martinez e Stefano Scaini

Profilo Autore

Davide Martinez, laureato in Scienze e Tecniche Psicologiche è dipendente del Ministero dell'Interno. Da anni svolge studi approfonditi ed analisi sugli aspetti psicologici correlati al fenomeno del terrorismo e della radicalizzazione.

Profilo Autore

Stefano Scaini opera nei settori Security e Safety dal 1993 fornendo servizi, consulenze e contributi didattici in merito a sicurezza, tecnologie ed applicazioni sia civili che militari, con particolare riferimento agli aspetti dual-use e quanto afferente ai settori Sicurezza, Protezione e Difesa di assets critici. Certificato Professionista della Security di III livello - Senior Security Manager in conformità alla norma UNI 10459:2017, è altresì certificato con merito al livello AMBCI presso The Business Continuity Institute. Certificato P.F.S.O., C.S.E., R.S.P.P., Covid Manager, Tecnico Ambientale e Coordinatore 257/'92, è in possesso dal 1996 dell'idoneità tecnica all’impiego di materiali esplodenti (ai sensi dell’Art. 27 del D.P.R. n°302/'56) ed iscritto al Ruolo dei Periti e degli Esperti della CCIAA di Parma nella Categoria CHIMICA-Esplosivi.

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